Cancro, le parole giuste che non trovi mai

25 agosto 2023

Cancro, le parole giuste che non trovi mai

le parole giuste

Anna Costantini

È successo a tutti di non trovare le parole. Di cercarle in fondo al cuore, nella pancia, nella testa. E non trovarle. O trovare quelle che già sai che sono sbagliate. Perché davanti ad un amico, a una sorella, ad un compagno che ti parla del suo cancro in realtà, diciamo la verità, vorresti solo scappare. Perché non le hai le parole giuste.

Vorresti piangere. Vorresti urlare tutta la tua paura, tutta la tua disperazione. Ma non sei tu quello da consolare, da supportare, da sostenere, da ascoltare. Allora, vai a caccia di parole. Di quelle ‘giuste’ che non trovi mai. E così, ti affidi al repertorio classico e ti aggrappi al salvagente delle similitudini legate alla battaglia, alla guerra da vincere, al coraggio da dimostrare. Perché davvero tu pensi che quella sia una battaglia, perché davvero tu vuoi che il tuo amico la vinca, perché davvero ti sembra un guerriero. E invece, ancora una volta sono quelle sbagliate.

I malati di cancro non vogliono essere chiamati "guerrieri"

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Sì, lo dice Pierluigi Battista, giornalista, in un monologo rilanciato da Geppi Cucciari, lo dicono i tanti commenti sotto i post social. Perché chi ha un cancro non vuole sentirsi chiamare ‘guerriero’, perché non è una battaglia e morire non può e non deve essere considerata una resa, la sconfitta di chi non ce l’ha messa tutta. E allora, cosa dobbiamo dire? Quali sono le parole giuste? Come facciamo a smetterla di nasconderci dietro ad un’emoji, ad un cuore, alle dita incrociate, al braccio in su in segno di forza?

Dottoressa Anna Costantini, in qualità di Responsabile del Servizio di psico-oncologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Sant’Andrea di Roma,  Consigliere nazionale della Società Italiana di Psiconcologia e co-autore del Manuale pratico di psico-oncologia, quali sono le parole giuste da dire? Perché non solo il malato, ma anche chi gli sta intorno non ha ricevuto un libretto di istruzioni. Perché è così insostenibile per un malato di cancro essere chiamato ‘guerriero’. In fondo da sempre chi affronta un nemico viene considerato un lottatore e, se sconfitto, un eroe. 

La simbologia della guerra, della battaglia e dei guerrieri nasce molti anni fa nell’ambiente delle Associazioni femminili a supporto delle donne con il cancro al seno. Nell’immaginario le donne sono state viste come delle amazzoni, coraggiose e tenaci, impegnate a fronteggiare un nemico davvero insidioso. Non ci dimentichiamo che erano anni in cui la malattia era quasi una vergogna e intorno al cancro c’era uno stigma, non veniva nemmeno nominato. Ma non solo, non c’erano le cure che abbiamo adesso e quindi era davvero un nemico considerato invincibile. E sappiamo che tanto più grande è la paura, tanto più forte deve essere la reazione opposta. Il fatto di avere uno spirito combattivo, di essere delle amazzoni era una descrizione che calzava perfettamente per queste donne antesignane della lotta al tumore al seno e allo stigma della malattia. Poi, però, le cose sono cambiate».

Quindi è normale che tutta la simbologia legata alla battaglia sia nella nostra ‘dotazione’ di parole. Quando e perché sono diventate parole sbagliate, addirittura per alcune offensive?

All’inizio questo tipo di comunicazione ha avuto la sua ragione d’essere e ha raggiunto molti degli scopi prefissati. Poi, con il tempo, si è fatta una distinzione tra lotta e accettazione, un termine che oggi è centrale davanti alle malattie gravi. Ma attenzione, accettare non significa subire passivamente (che comunque è l’altra faccia del combattere, del contrastare) piuttosto significa prendere atto della realtà, valutare tutte le possibilità che la medicina mette a disposizione per ‘integrare’ questa malattia nella vita di ognuno, fino alla guarigione o quanto meno  nella prospettiva di una sopravvivenza più lunga possibile. Senza dimenticare che ci sono persone che questa battaglia non riescono a combatterla, che non vogliono sentire il peso del giudizio di una sconfitta. Non bisogna ostinarsi a pretendere da loro quello che non possono dare.

Spesso su ogni parola scende un velo di ipocrisia

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In un rapporto tra due persone la diagnosi di cancro altera gli equilibri. E a farla da padrone, spesso, è la menzogna. ‘Non ti dico quello che penso per non ferirti’, ‘non ti racconto che sono felice perché tu non lo sei’, ‘non ti parlo dei miei problemi perché davanti al tuo diventano piccola cosa’. Scende su tutto un velo di ipocrisia dietro il quale ci nascondiamo a volte.

 

Più che di ipocrisia o menzogna io parlerei di autenticità e intimità.  È vero che i rapporti cambiano, che gli equilibri cambiano ma dobbiamo sempre cercare di essere autenticamente presenti. Essere noi stessi anche quando non diamo il meglio di noi. Una persona con il cancro non cerca finzione ma cerca qualcuno che rispetti i draghi della sua mente. Ci sono persone che invidiano la salute degli altri e persone che, invece, sentendo di averla persa trovano forza nell’amico che sta bene e altre ancora che sono più preoccupate del dolore che involontariamente hanno provocato che della loro stessa condizione. Non c’è una regola valida per tutti. La verità è che per stare autenticamente vicino ad una persona con il cancro è necessario concedergli tempo, spazio e attenzione. Non ha senso non raccontare più nulla di sé piuttosto dirgli ‘mi piacerebbe raccontarti cosa mi è successo ieri.’ e capire se l’altro ha voglia di distrarsi o se vuole parlare della propria malattia. Capire a che punto è, in che momento si trova e, se necessario, si può anche restare in silenzio. Cosa importantissima sono le emozioni. Spesso, quando si parla con una persona malata, si provano forti emozioni che possono creare una sorta di imbarazzo, di pudore. E allora si cerca di bloccarle e di cambiare discorso, piuttosto si sceglie di dare consigli pratici. Questo comunica al paziente che non ne vogliamo parlare, che non siamo pronti a parlarne e nel futuro, sicuramente, la persona si reprimerà dal farlo.

Ci sono sentimenti difficili da accettare

E poi c’è il senso di colpa, davanti alla frase ‘tu non puoi capire’, per aver pensato che è una fortuna, perché nessuno vuole trovarsi in quei panni. Sono sentimenti difficili da accettare, anche da confessare a sé stessi figurarsi alla persona che hai davanti e che vorresti solo stringere a te.

 

Il cancro è ancora oggi l’evento più temuto dalla popolazione generale. Basta affrontare l’argomento a cena per rendersene conto per capire quanto generi  imbarazzo, parlarne significa mettere davanti alle persone il loro tabu più grande, il nemico più spaventoso. La mente tende, finché può, ad esorcizzare l’eventualità ma quando capita a qualcuno che conosciamo è come prendere consapevolezza che ‘se è successo a te, può succedere a me’ e toccarne con mano l’angoscia. Il sottile senso di colpa che a volte si prova da sani, può celare proprio il sollievo di aver pensato ‘fortunatamente riguarda lui/lei, io l’ho scampata’. Ma questa è solo una delle tante possibili reazioni. Di fronte ad un proprio caro malato, se apriamo un canale di comunicazione autentica dobbiamo aspettarci diverse ed intense emozioni. Non solo quelle della persona malata ma anche le nostre. Quindi, dobbiamo essere molto preparati e non farci spaventare dai nostri stessi sentimenti.

le parole giuste

Quando una persona cara ha un cancro è come quando un amico divorzia: si parla solo di questo, ogni argomento, ogni istante è filtrato da questa lente. Perché oggettivamente la malattia diventa il centro della sua vita.

 

Un malato, una persona sofferente tende quasi naturalmente ad essere “egoista”. Perché è più bisognoso di aiuto, di attenzioni, di cura. Capita così che potrebbe sottovalutare non  che anche il partner, per esempio, sia oberato di pensieri, responsabilità  e provato psicologicamente. Se questo accade può essere frustrante per il partner che si fa carico della situazione ed in qualche modo alterare le relazioni affettive. E’ dunque importante che chi gli sta più vicino, che sia il partner o un amico o un familiare, lo aiuti ad aprirsi a ciò che lo circonda, a cambiare prospettiva, a relativizzare. a sentire di avere ancora un ruolo per gli altri,  e questo lo aiuta a mantenere il proprio valore di persona e non solo alla condizione di malato passivo ed impotente. Ma, ancora una volta, non dimentichiamo di rispettare i tempi. Non pretendiamo tutto e subito. E consideriamo anche i tratti di personalità al di là della malattia  ad esempio una personalità dipendente o narcisista tenderà ad affrontare la malattia in modo più egocentrico e richiedente, mentre altri possono nascondere le proprie emozioni, ignorare i propri bisogni e mostrare un atteggiamento più generoso così come affronterebbero  altri eventi stressanti della vita.

le parole giuste

E poi c’è l’argomento tabù, quello della morte. 

 

Parlarne fa parte del rapporto. Mi capita spesso di confrontarmi con pazienti che mi chiedono come prepararsi a morire. Perché è evidente che la battaglia è contro la morte e sappiamo tutti che, in quanto esseri umani, quando ci confrontiamo con la morte sappiamo che è una battaglia che siamo destinati a perdere. Nei malati di cancro il tema è ancora più forte. Alla fine quello che emerge è che per prepararsi alla morte bisogna vivere, pienamente. Un’esistenza vissuta in modo significativo, basata sui nostri valori e inclinazioni, cosa che molto spesso i pazienti hanno rimandato fino a quando non è arrivata la diagnosi. Ancora una volta sarebbe importante non sottrarsi all’argomento se chi abbiamo davanti sente la necessità di farlo. Il segreto è proprio quello del dialogo aperto ma per fare questo dobbiamo essere pronti ad affrontare qualunque tema l’altro desideri mettere in campo.

Quindi, bisogna rispettare i tempi, essere autentici, non aggrapparsi al salvagente delle parole della retorica. Resta da sciogliere il nodo su ‘cosa dire’ e, soprattutto ‘cosa non dire’. 

 

Iniziamo da cosa non dire. ‘Andrà tutto bene, vedrai che tutto si risolve per il meglio’ può essere un incoraggiamento con un sollievo immediato, ma che può diventare una delusione cocente e una falsa speranza. O ancora, ‘Se io fossi nei tuoi panni’ e non solo perché è oggettivamente falso ma anche perché ogni persona ha un modo diverso di reagire davanti alle avversità della vita. Inoltre, non bastano le parole ma servono anche i gesti, gli atteggiamenti: uno sguardo di autentico ottimismo è importante ma se le nostre parole dicono una cosa e il nostro tono suona falso o se nel nostro sguardo c’è disperazione allora è chiaro che c’è qualcosa che non va e che stiamo cercando di nasconderla. Così come vedere una persona demoralizzata e depressa per un parente o per un amico è estremamente doloroso  Spesso si tende a reagire cercando di incoraggiare dicendo: ‘devi essere ottimista’, per aiutare la guarigione. Questo non sempre è di conforto. Inoltre non c’è nessuna evidenza scientifica che ci dice che la positività migliora un decorso mentre è possibile che si inneschi un sentimento di colpevolizzazione, come a sottintendere che ‘non hai fatto la tua parte, non ce l’hai messa tutta’.

Piuttosto meglio fare domande aperte: ‘Come va? Come stai? Come ti senti? Cosa provi? Ti va di parlare? ’ in modo da mettere la persona nelle condizioni di aprirsi e raccontare quello che desidera, quello che è importante per lui in quel momento. E, quindi, ascoltarlo e seguire la direzione che ci indica con le sue parole. Inoltre, non dobbiamo mai dimenticare che possiamo essere di grande supporto con una comunicazione empatica, che dimostri davvero di essergli vicino, di aver capito la sua prospettiva e le sue difficoltà. E possiamo farlo con frasi come: ‘Deve essere stato davvero duro per te affrontare la terapia oggi’ oppure ‘immagino quanto tu sia in ansia per questo esame’.

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