25 maggio 2023
La fine di un amore è una lacerazione

Dirsi addio è uno strappo. E non è mai indolore. E’ una lacerazione che, raramente, lascia contorni netti. La fine di un amore è una rottura fisica, corporea, è violenza.
A volte si lascia per fuggire dall’altro o, perché no, nella speranza di fuggire da se stessi. Altre volte si viene lasciati e l’ego si demolisce. «Perché forse veniamo lasciati non tanto per quello che siamo ma per quello che non siamo. Perché non corrispondiamo al desiderio dell’altro» scrive Claire Marin, filosofa francese, nel suo ultimo libro “La fine degli amori (e altri addii che trasformano la vita” uscito, in Italia, per Einaudi.

Ed è proprio con Claire Marin che parliamo di quella pagina dolorosa, che ognuno di noi ha nel proprio diario della vita, della fine di un amore o comunque di un rapporto. Perché “che le si decida o le si subisca, le rotture ci appartengono”.
Per dire addio, per lasciare la persona che si è amata (o che si pensava di amare), serve coraggio perché si fa consapevolmente del male all’altra persona, o piuttosto serve spirito di sopravvivenza, prevale il desiderio di ritrovarsi (o almeno di guardare altrove)?
Naturalmente è molto personale e soggettivo, ma è vero che la paura di ferire l’altra persona può trattenerci dall’andar via. Ma impedirci di lasciare i nostri genitori o la persona che abbiamo amato e a cui a volte siamo ancora molto legati è la condizione dolorosa che può permetterci di estraniarci da un ambiente o da una relazione in cui stiamo soffocando, in cui sentiamo di non essere autentici o sinceri. Può essere utile per trovare se stessi o per ritrovare finalmente se stessi. Oppure per scoprire aspetti della propria personalità che non possono essere espressi in quella relazione o in quell’ambiente e che diventano essenziali nel nostro divenire.
Nel suo libro, chi resta non sembra mai odiare. Non c’è vendetta, non c’è spirito di rivalsa, non c’è desiderio di “uccidere” la figura amata e, magari, idealizzata. Al contrario, chi resta rimane annichilito, immobile, circondato da macerie, soprattutto interiori. Come se, in fondo, fosse in qualche modo responsabile dei suoi fallimenti. Ma è davvero così? La persona lasciata deve incolpare l’altro ma anche se stessa?

È vero, non mi ero resa conto che in questo libro non c’è alcuna espressione di rabbia o di vendetta. Perché quello che mi interessa è anche, e soprattutto, quello che la rottura ci permette di disfare, in modo doloroso ma anche a volte necessario, per essere nella verità di una relazione. Posso biasimare la persona che ha il coraggio di dirmi che non mi ama più, o non tanto, o non allo stesso modo? In quel momento, ovviamente, c’è rabbia, delusione, dolore e una ferita narcisistica. Ma a poco a poco si capisce che, anche se ci si è allontanati, si può comprendere qualcosa della cecità in cui ci si trovava. Possiamo volerci vendicare di qualcuno che ci ha tradito o ci ha ferito intenzionalmente, ma probabilmente non di qualcuno la cui onestà ci ferisce. L’idea della vendetta mi è fondamentalmente estranea.

Per quanto riguarda la responsabilità della persona lasciata, non credo che siamo responsabili del disamore dell’altra persona, non è così semplice nella maggior parte dei casi. Ma, anche se non possiamo farci nulla, possiamo avere la sensazione di aver perso tutto il valore quando qualcuno ci lascia e questa sensazione ci fa soffrire terribilmente. Si può provare in amore, nell’affetto familiare o nell’amicizia. Essere rifiutati o rinnegati dal proprio fratello, dal proprio migliore amico, essere lasciati dalla propria moglie, è una prova molto destabilizzante che ci fa soffrire e mette in discussione la nostra identità.
Nel suo libro lei dice che, alla fine, non impariamo mai dai nostri errori o, comunque, dalle nostre esperienze. E che dobbiamo resistere alla tentazione di vedere quella rottura, quell’addio, con ottimismo, come un’opportunità di rinascita. Ma allora, come si sopravvive a una rottura? Non con l’ottimismo, ma almeno con la speranza?
Sì, con la speranza perché gli altri ci dimostrano che possiamo intrecciare gioia e dolore, che la traccia della ferita non svanisce, ma che possiamo trovare un nuovo slancio in questa esistenza che è stata frantumata. È l’ottimismo che si pone come verità esistenziale che mi infastidisce. Non tutte le prove della vita sono “occasioni” o “opportunità” per reinventarsi. Ci sono alcune prove, come ad esempio la perdita di un figlio, che sono insormontabili per alcuni genitori. E trovo estremamente violenta l’esortazione a “riprendersi”, ad “andare avanti” o a “voltare pagina”. Ma per fortuna c’è anche la sorpresa occasionale di un incontro, di una solidarietà nella sofferenza che ci fa uscire dall’isolamento o ci restituisce una gioia vitale che pensavamo di non poter più sperimentare. In Vivre vite, Brigitte Giraud, che quest’anno ha vinto un premio in Francia, parla di un lutto legato alla perdita improvvisa del suo compagno in un incidente. Parla di una “piega della vita”. C’è un prima e un dopo. Questa piega rimane visibile, ma la vita riprende, qualcosa prende forma, quasi a nostra insaputa, sulla trama del dolore, nonostante esso, o più precisamente, si intreccia con esso. Questo ritorno alla vita quando non ci crediamo più è profondamente commovente.
Claire Marin nel libro scrive: “Per fortuna le rotture amorose non hanno tutte la stessa violenza. Ma la disaffezione produce comunque una scossa profonda. Chi siamo quando smettiamo di essere amati? Posso perdere le qualità che l’amore dell’altro mi conferiva senza perdere me stesso? (…) Chi sono io adesso che non sono più niente per te?“. E allora, forse, se una lezione si apprende leggendo questo libro è che davvero dobbiamo riscoprire le nostre qualità, dopo la fine di un amore o comunque dopo un addio, leggerci dentro e diventare noi stessi. “Rompere con una persona è il punto di partenza per un nuovo, più vasto, inizio. Diventa anche un modo per rompere con se stessi e scoprirsi altri (…) Si tratta di vedere chi siamo, in un altro posto e da soli. Quasi che in questo venire meno dell’amore imparassimo qualcosa su noi stessi”.
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