IL RITRATTO
11 luglio 2023
“Ho sempre preso in mano il mio destino”. Antonella Celano si racconta

“La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri”: serve una frase del condottiero romano Marco Aurelio per raccontare tutta la forza e l’energia di Antonella Celano. Ma, in fondo, a pensarci bene un po’ condottiero lo è anche lei veramente visto che porta per mano, da oltre vent’anni l’Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare (APMARR). Sì, perché un’Associazione come questa non si dirige, si accompagna. È un gioco di squadra.
Antonella non si è mai arresa e accompagna APMARR per mano
La strada è stata lunga, non priva di difficoltà, ma Antonella Celano non si è mai tirata indietro. D’altra parte sa bene quello che vuole per sé e anche per gli altri. Così, alla vigilia dei primi 40anni di APMARR è tempo di bilanci. E, inutile dirlo, Antonella li fa guardando avanti. «Quando nel 2000 ho accettato la Presidenza per alcuni ero solo una malata coraggiosa. Coraggiosa di certo. Malata no. Non mi sono mai sentita così. Ho sempre pensato che si potesse scrivere una storia diversa» racconta con il solito, travolgente, sorriso.
Cosa è cambiato in questi anni?
Dal 1984, anno della fondazione di APMARR, ad oggi sembra che tanto sia cambiato. Eppure a me non sembra. Perché continuo a parlare di diagnosi precoce, corretta informazione, accesso alle cure. E negli occhi delle persone vedo un certo stupore, direi meraviglia. Come fossero concetti sentiti per la prima volta. Eppure noi, ma anche le altre associazioni, ne parliamo da tanto tempo. A volte mi chiedo se non sia tempo sprecato. E poi mi dico di no, che è la strada giusta. Che non mi devo arrendere. Però è vero che le persone sono sempre più approssimative e dimenticano facilmente.
Eppure le persone a cui si rivolge dovrebbero avere un grande interesse ad ascoltare.
Gli interlocutori a cui ci rivolgiamo non sono sempre gli stessi. Le Istituzioni hanno certamente un orecchio allenato ma quando ti rivolgi ad ogni singolo cittadino sembra che non voglia proprio ascoltare. Oggi, come ieri, quando si parla di “malattia” le persone indossano tappi alle orecchie e paraocchi. Meglio far finta di niente. Non siamo “leggeri”. A rischio di sembrare ancora più banale, mi sembra che anche il rapporto medico paziente non sia così cambiato. Alla nostra Associazione arrivano migliaia di richieste di chiarimenti. Si chiede a noi quello che non si è avuto il coraggio di domandare al medico. Ma non possiamo sostituirci agli esperti. Abbiamo un perimetro ben delineato entro il quale muoverci. Da qualche tempo abbiamo coinvolto nel nostro Progetto Numero Verde, la figura del reumatologo. Con la speranza di ridurre la pessima abitudine di chiedere a dottor Google.
Il "fattore Celano" ha fatto la differenza per molti malati reumatici

Perché non si parla al proprio medico?
Con il medico le persone hanno paura di fare le domande sbagliate. Ma non esistono domande più o meno corrette. Le domande nascono dalle esigenze. Se chiedi vuol dire che non sai. Eppure le persone hanno vergogna, temono di fare brutta figura. E soprattutto hanno paura di ricevere una risposta spiacevole. Ci è capitato di intercettare ambulatori con la scritta ‘Silenzio, le domande si fanno alla fine’. Attenzione, però, a non generalizzare.
Ma è questa particolare patologia che ti rende consapevoli ‘dopo’ e non ‘prima’ di una visita?
Sicuramente. Quando ricevi una diagnosi sei confuso. Non sai cosa ne sarà del tuo futuro. Anche se, a volte, avere la diagnosi ti “rende felice”, perché finalmente smetti di brancolare nel buio. Hai trovato la strada, sai da dove partire e come arrivare. Ma la consapevolezza dura poco. Subentra il bisogno di ascoltare ciò che vuoi sentirti dire e cioè che quella diagnosi non era la “tua diagnosi”. E così, invece di iniziare un percorso, per quanto duro, con il medico che ha fatto la diagnosi, si cerca disperatamente chi lo possa smentire. E al primo fallimento della terapia si cambia il medico. Si cerca il miracolo. Il tutto e subito.
C’è differenza tra uomo e donna nel percorso di diagnosi e cura?
Anche in questo caso direi di sì. Gli uomini sono decisamente spaventati. Anche qui sembra che stia usando un luogo comune. Gli uomini sono forti, non piangono e non amano le sconfitte. Praticamente una verità scolpita nella pietra. E per molti uomini la malattia è una sconfitta. E non la tollerano. Le donne, al contrario, adottano la politica del fare: si rimboccano le maniche, si mettono la famiglia sulle spalle e si sobbarcano di tutti gli aspetti della malattia. È sempre stato così.
Il ‘fattore Celano’ è stato un valore aggiunto per i malati reumatici in tutti questi anni?
È una domanda difficile. Ci sono giorni che non sono sicura di essere stata un valore aggiunto. Altri in cui ricevo attestazioni di stima che mi gratificano tanto. Mi sono sempre impegnata al massimo per cambiare le cose. Anche a scuola. All’università. A Marsiglia nella clinica dove mi sono operata la prima volta. Sempre in prima fila. Pronta a dare ‘battaglia’. Non sopporto le persone che si fanno cadere il destino addosso. Non delego mai agli altri le mie scelte. Negli ultimi tempi penso spesso che non faccio tutto quello che potrei fare. Sono un vulcano di idee e di parole.
Quando si vince una battaglia ecco che si presenta una nuova sfida
La sua ultima ‘battaglia’?
Con i servizi di assistenza aereoportuale ai passeggeri con ridotta mobilità. Tempo fa ne ho denunciato uno per sequestro di persona. Ho aspettato a lungo un operatore. Scendere dall’aereo per le persone come me, con problemi di deambulazione, richiede organizzazione. Perché il rispetto della persona dovrebbe essere scontato. Dovrebbe appunto. È vero che ci sono mille impedimenti, centomila carenze e mille regole ma noi passeggeri a ridotta mobilità siamo viaggiatori come gli altri. E il nostro tempo ha lo stesso valore del tempo di tutti. A Bologna mi hanno chiesto se viaggiavo “per salute” visto che il Rizzoli è un centro famoso. E quando ho risposto “per lavoro” mi hanno guardato stupiti. Mi sono ricordata di Troisi quando diceva che per tutti un napoletano non “viaggia” ma “emigra”. Siamo tutti vittime dei luoghi comuni.
Qual è stato il segreto che le ha permesso di raggiungere così tanti obiettivi? A dispetto della disabilità, dei pregiudizi degli altri, del non voler sapere della Società?
Ho messo l’asticella ad altezze pazzesche. Punto sempre tanto in alto. Da sempre e in tutte le cose che faccio. Anche le più banali. Difficilmente esco se il colore della borsa non è coordinata a tutto l’abbigliamento. A volte addirittura metto anche gli occhiali abbinati. Chiedo a me stessa sempre il massimo. È uno stile di vita. Credo che sia un mio punto di forza ma è stato anche un punto di debolezza. Però quando mi capita di dare un consiglio dico sempre che la forza viene proprio dal “non lasciarsi andare”. Bisogna scommettere su se stessi e non accontentarsi.

Cosa replica a chi le dice che ci vogliono un po’ doti da supereroe per fare il presidente di APMARR con tutta questa energia?
Che si nascondono dietro un luogo comune. A chi mi dice che non ha le mie capacità e lo stesso mio tempo da dedicare a questa avventura replico che sta mentendo. E credo che questo lo pensino tutte le ‘Antonelle’ che guidano le Associazioni. Tutte noi abbiamo affetti, impegni, una vita sociale, viaggiamo, lavoriamo e in tanti casi ci sono anche le terapie da aggiungere alla lista. E le nostre giornate durano comunque 24 ore. Questo significa lavorare di notte e ottimizzare ogni secondo della propria vita. Io non sono di più di altri. Io sono disposta a sacrificarmi più di altri. È una differenza sostanziale. Cosa ho davvero di più? L’ambizione direi. La convinzione di volercela fare, di voler vincere le battaglie e portare a casa il risultato.
C’è stato un momento di sconforto in questi anni?
Quando mi sono resa conto che mi ero investita di una responsabilità a volte troppo grande. Ho voluto scaricare ‘gli altri’ dalle responsabilità e farmene carico. E l’asticella delle mie aspettative, non aiuta. È stato sempre così. Ero ragazza, avevo appena fatto le protesi e il mio reumatologo mi chiamava perché la mia storia potesse essere di conforto ai pazienti durante la visita. La mia è una patologia pediatrica e io mi sono sentita sempre molto fortunata. Io non ho avuto un prima e un dopo. Io non sono arrivata a trent’anni con una vita ‘normale’ e poi con l’arrivo della diagnosi mi sono dovuta reinventare. Io mi reinvento dall’infanzia. Non mi credevano, pensavano che fingessi. Devo tutto alla testardaggine di mia madre. Andavo a scuola a piedi per dimostrare che riuscivo a camminare anche se era difficoltoso. Ho lasciato l’università a tre esami dalla tesi. Ho deciso di operarmi. Anche se ho sempre creduto nella Ricerca ho avuto un coraggio da leoni. E ho ricominciato a vivere. Ho fatto tutto quello che non avevo mai fatto. La parola fallimento non è nel mio vocabolario.
Antonella, che da grande continuerà a fare la guerriera
Un ricordo bello di questa rinascita?
La prima cosa è stata quella di comprarmi un pacchetto di patatine e sedermi sul marciapiede a mangiarle. Ho visto la mia comitiva farlo per anni. E io sempre in piedi. Sono sempre quella ragazzina. La prova? Venite con me ad un concerto.
Cosa direbbe ai ragazzi di oggi?
Di vivere la vita sempre e comunque. E questa volta non è una banalità. È un consiglio saggio e prezioso. Di non seguire le mode. Di vivere la propria vita nel senso più pieno del termine.
La sua paura più grande?
Di soffrire. Infatti sto pensando al testamento biologico. Ho paura di rimanere intrappolata in me stessa. Io devo poter avere il controllo di me stessa e quindi l’idea di ritrovarmi in una situazione di necessità è intollerabile.
La domanda che non le ho fatto?
Cosa voglio fare da grande.
Cosa vuole fare da grande?
Non ho ancora deciso. L’astronauta se potessi sarebbe un’opzione. Vorrei viaggiare, fare la globetrotter. Ma non potrò farlo mai. Ho bisogno di una persona che mi aiuti anche nelle cose spicciole. Come ad esempio prendere un banale kit di cortesia al bagno. Stanno sempre in alto. O entrare in una doccia con la carrozzina. Direi che devo fare la guerriera ancora per un po’. Ci sono tante battaglie ancora da vincere.
Non c’è niente da fare, dentro Antonella Celano c’è un Marco Aurelio che non si arrende. (A.M.R)